Alcune considerazioni in merito al recente utilizzo dei reati associativi da parte della polizia giudiziaria.
L’associazione sovversiva (art. 270 c.p.) è un reato che ci arriva direttamente dal codice penale fascista, cioè il nostro attuale codice penale.
Il reato era stato introdotto per perseguire “comunisti e anarchici” sulla base della loro semplice connotazione ideologica, come si può facilmente notare leggendo l’invariato testo della norma.
Si tratta in termini giuridici di un reato di “pericolo presunto”: per essere puniti non occorre compiere alcun comportamento idoneo a raggiungere l’obiettivo, è sufficiente l’esistenza stessa dell’associazione per presumere che “l’ordine democratico” sia in pericolo, e quindi gli “associati” colpevoli.
Accanto al 270 è collocato il 270 bis, un altro articolo pensato per le “associazioni sovversive”. In questo caso la norma prevede un ulteriore elemento: ad essere puniti sono coloro che «si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico». Non solo un’associazione sovversiva, dunque, ma un’associazione sovversiva a scopo di terrorismo o eversione.
La pena è in questo caso molto più alta (grazie anche alle ultime modifiche introdotte dal ministro Pisanu nel 2005): sono previsti fino ad un massimo di quindici anni di carcere. Ed ancora una volta si tratta di un reato di “pericolo presunto”: non occorre dimostrare il compimento di alcun reato per perseguire i partecipanti. Estremizzando, ma neanche troppo, basterebbe dichiararsi rivoluzionari per essere sottoposti all’art. 270 bis. Se non occorre commettere alcun fatto materiale, qual è il limite entro il quale si può immaginare che un comportamento possa essere definito come potenzialmente terrorista o eversivo??
Non è dunque affatto un caso che questa norma trovi oggi come nel ventennio un largo impiego per fini di repressione del dissenso politico, nonostante Pisanu col suo “pacchetto sicurezza” argomentasse la necessità di contenere il dilagante terrorismo di Al Qaeda.
E’ così che l’associazione sovversiva è tornata ad essere un’arma repressiva nelle mani della polizia giudiziaria. Della polizia, sottolineiamo. Posto che, praticamente mai, queste accuse hanno avuto in tribunale un esito diverso dalla piena assoluzione degli imputati.
In questa particolare cornice possiamo inquadrare l’assurdità dei fatti che hanno trovato eco nei quotidiani locali di Bologna degli ultimi mesi.
Il 25 febbraio 2014, a nove anni di distanza dai fatti contestati, su mandato della Procura di Genova, vengono effettuate perquisizioni in Liguria, in Toscana e a Bologna. Risultano indagate undici persone con l’accusa di far parte della Federazione Anarchica Informale (Associazione sovversiva con fini di terrorismo, art. 270 bis) e pertanto ritenute responsabili di aver realizzato azioni con finalità terroristiche (art. 280).
A supporto dell’ipotesi accusatoria vengono ipotizzati: «la fabbricazione e collocazione di tre ordigni esplosivi in data 1.3.2005 nei pressi delle caserme delle Stazioni Carabinieri di Genova Prà e Genova Voltri; la fabbricazione e collocazione di due ordigni esplosivi in data 24.10.2005 all’interno del Parco Ducale di Parma, destinati a colpire la sede dei R.I.S. dei Carabinieri di Parma; la fabbricazione e l’invio di un plico esplosivo in data 3.11.2005 al Sindaco di Bologna Sergio Cofferati.»
Il 25 febbraio viene inoltre notificata la chiusura delle indagini – delle quali nessuno era a conoscenza – e l’apertura di una nuova indagine, di cui ancora non si sa niente.
Si tratta di indagini basate esclusivamente su intercettazioni telefoniche e ambientali. Queste ultime, effettuate all’interno di un luogo occupato a Genova, risultavano però spesso del tutto incomprensibili e proprio per questo sono state sottoposte a diverse perizie e a un filtraggio da parte dei Ris. Un lavoro certosino di ascolto che è durato nove anni e che ha prodotto come risultato la richiesta di custodia cautelare in carcere per tutti gli indagati.
Peccato che le richieste del Pm non siano state accettate né al momento delle perquisizioni del 2014, né successivamente dal tribunale del riesame un mese dopo.
Un vero e proprio accanimento da parte della polizia, ben testimoniato anche da un altro episodio. Un altro PM già nel 2010 aveva richiesto le custodie cautelari per questi stessi fatti e con le seguenti motivazioni il Gip aveva rigettato la richiesta: «basandosi la richiesta unicamente sulle intercettazioni allegate, che […] non consentiva la percezione di espressioni univoche ma soltanto di spezzoni di frasi, spesso con ambiguità fonetiche malgrado l’effettuazione di tre perizie foniche, così che emergevano parole singole non significative e di contenuto non univoco, tanto che la comprensione restava sostanzialmente affidata alla soggettiva percezione dell’ascoltatore.»
Del tutto analoghi sono i motivi che portano oggi il giudice del riesame a bocciare ancora la richiesta cautelare: le intercettazioni sono inutilizzabili e non risulta alcun altro elemento indiziario idoneo a rintracciare una struttura associativa.
Così sono gli stessi togati che prendono parola nell’udienza del 20/03/2014 a smascherare l’evidente strumentalità dell’operato della polizia: «l’adesione a iniziative di solidarietà, di protesta o di opposizione ideologica non possono considerarsi di per sé sufficienti alla configurazione della specifica associazione sovversiva contestata, anche in considerazione del mancato rinvenimento di armi o di altri strumenti idonei al di là della generica adesione dei coindagati ad ideologie di tipo antagonista.»
Dunque, ricapitoliamo. Dieci anni di indagini fatte a spese dello stato, utilizzando le più sofisticate e costose apparecchiature, impiegando decine e decine di uomini in operazione di ascolto, spionaggio e pedinamento, non hanno prodotto alcuna prova, né delle cosiddette finalità terroristiche né del compimento del minimo fatto di reato.
Con tutta evidenza possiamo quindi affermare che gli obiettivi della polizia erano di tipo diverso: di portare un’accusa vincente a processo importava ben poco.
Per darne prova è sufficiente leggere la mole di documenti prodotta per la sola richiesta cautelare: quattrocento pagine in cui di elementi “materiali” non c’è nemmeno l’ombra, ma che invece costituiscono un enorme archivio di manifestazioni e nomi dei relativi partecipanti. Centinaia e centinaia di persone elencate per aver partecipato ad eventi di nessuna rilevanza processuale. Un archivio di nomi “coinvolti” in un’indagine di terrorismo, per l’appunto.
Siamo facili profeti nel prevedere che ben difficilmente una simile indagine arriverà anche solo a processo. Ma come insegna anche la recentissima assoluzione con formula piena per i ragazzi e le ragazze del centro di documentazione “fuoriluogo”, una montatura giudiziaria viene costruita con l’obiettivo di creare disgregazione, dividere i movimenti tra buoni e cattivi. Le persone vengono ascoltate e seguite per anni poi, come fossero pedine di un gioco di società, viene deciso chi inserire e chi no. Un gioco orchestrato seguendo regole ben precise: ci devono essere opinioni diverse fra gli indagati e, possibilmente, divergenti; meglio se non tutti si conoscono bene e se vi sono elementi considerati l’anello debole; fare pressioni con lo scopo di mettere le persone in contrasto fra loro e far andare in crisi rapporti politici, di amicizia e di solidarietà. Il tentativo è in pratica quello di creare spaccature e dissidi tra gli imputati e tra loro e chi gli sta intorno.
In quest’ottica “sbattere il mostro in prima pagina” risulta sempre un buon affare. Intanto perché c’è il bieco tentativo di isolare gli indagati sbattendo nome, cognome e fatti, raccontati da fantasiosi giornalisti, sulle pagine dei quotidiani. E poi il conseguente “avvertimento” alle persone attive nelle lotte di stare attenti, altrimenti il rischio è quello di ritrovarsi in qualsiasi momento nelle mani della giustizia. Una infinita azione di deterrenza rivolta a tutti coloro i quali portano avanti idee e pratiche volte a costruire e immaginare una società migliore.
Così la criminalizzazione punta non solo a dividere gli individui tra di loro e dai gruppi ai quali appartengono: la sua fondamentale funzione è anche quella di separare componenti di movimento tra loro e dal resto della società.
Infine, l’eco mediatico che deriva da simili iniziative giudiziarie ha per di più l’effetto di distogliere l’attenzione dei più dai problemi reali.
Come associazione di mutuo soccorso per il diritto di espressione sentiamo la necessità di smascherare e denunciare simili dispositivi polizieschi che puntano solo a dividere e seminare panico. La solidarietà resta la migliore arma da opporre a chi pretende di ridurre a silenzio le voci di lotta e dissenso ad un sistema ogni giorno più opprimente e tiranno.